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Date parole al dolore:
il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico
e gli ordina di spezzarsi.

Shakespeare, Macbeth

 

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Le tappe dell’evoluzione dell’essere umano coincidono con i cambiamenti legati al passaggio da una fase ad un’altra: qualsiasi mutamento implica la separazione o la privazione dallo stato precedente e costituisce la prima esperienza di perdita, il primo approccio con il distacco.

È possibile sperimentare il morire in differenti modi. Ad ogni morte corrisponde un lutto, con ripercussioni su chi resta e che si interroga per avere risposte ai propri perchè, ma la perdita di chi ha voluto morire volontariamente è quella che maggiormente provoca dolore ed una condizione di sofferenza emotiva molto difficile da affrontare, elaborare e superare.

Nella letteratura scientifica e specialistica il suicidio è trattato come argomento di non facile e immediata lettura, per le difficoltà di non poterlo esaminare come oggetto di verbalizzazione e di analisi.

Censure e difese psicologiche allontanano la possibilità di conoscibilità dell’oggetto e cercano in qualche modo di rassicurare l’individuo sulla “non eventualità” dell’accadimento per tutelare sé stessi o il gruppo familiare, con l’inconscia riluttanza a prender consapevolezza di un fenomeno che non solo è connesso alla morte, ma – ancora più grave – è determinato da un’azione volontaria e come tale “evitabile”, spesso associato alla riservatezza ed al silenzio per evitare possibili fenomeni emulativi.

Un papiro, risalente al 2280/2000 a.C., testimonia il suicidio nell’antichità: nel documento è descritta una disputa tra un uomo, stanco della vita che esprime l’intenzione di uccidersi, e la sua anima alla quale lo stesso si appella affinché lo accompagni nell’altro mondo (Evans & Farberow, 1988).

Un fenomeno che purtroppo negli ultimi decenni ha assunto dimensioni sempre più ampie e allarmanti, soprattutto nei paesi occidentali ed in quelli in via di sviluppo, dove la scelta di morire viene annoverata tra le prime dieci cause di morte e che, dopo gli incidenti stradali, rappresenta la seconda causa di morte nei giovani tra i quindici e i ventiquattro anni.

La morte volontaria viene valutata e giudicata in modo diverso a seconda del luogo, del tempo e di come viene considerata la morte in quell’ ambito culturale:  malattia o delitto, peccato o atto di libertà. È certo che gli atteggiamenti verso il suicidio sono influenzati dalle dinamiche che emergono nell’essere umano di fronte alla morte.

Il problema è così complesso che andrebbe conosciuto e affrontato a livello interdisciplinare, non solo per limitarne l’incidenza numerica, ma soprattutto per consentire, con soluzioni adeguate e mirati sistemi di prevenzione, l’elaborazione di una visione esistenziale della vita.

Intervenire sul suicidio significa fare prevenzione. In Italia la prevenzione del fenomeno è limitata. In particolare è la prevenzione primaria ad essere disattesa.

Per prevenzione primaria si intende la pianificazione di azioni concertate atte a mantenere e preservare un buono stato di salute, con la finalità – in questo caso specifico – di predisporre nell’individuo e nella società, le condizioni necessarie per limitare o inibire le cause alla base delle problematiche dei suicidi.

Un percorso speciale di prevenzione è costituito dalla Death Education (DE), un intervento capace di promuovere una educazione al senso della vita. Tale spazio, all’interno delle scuole, ha conosciuto un certo sviluppo a partire dal nuovo millennio. In Israele, Nord America e Nord Europa ha permesso di definire percorsi formativi sempre più strutturati e complessi, adatti alle diverse età delle persone e ai differenti problemi che esse devono incontrare rispetto alla morte (cfr. Doorenbos et al., 2003; Gallagher, 2001; Kastenbaum, 2004).