Francesco Campione insegna Psicologia Clinica alla Facoltà di Medicina dell’Università di Bologna. E’ direttore del Master Universitario in «Tanatologia e Psicologia delle situazioni di crisi» e del Corso di Alta Formazione nell’assistenza psicologica di base al lutto traumatico e naturale. Ha fondato e dirige Zeta, la rivista italiana di Tanatologia, ha fondato l’Istituto di Tanatologia e Medicina Psicologica ed è tra i fondatori dell’International Association of Thanatology and Suicidology, di cui è presidente. Coordina inoltre il Servizio di Psicologia degli Hospices di Bologna e il Progetto Rivivere (Servizio di aiuto psico-sociale gratuito alle persone e alle famiglie in lutto).
L’abbiamo incontrato.
1 • Lei è stato un pioniere sulle questioni legate alla morte e al morire. Quali sono state le maggiori difficoltà in Italia?
Quali sono state e quali sono. Fondamentalmente bisogna riferirsi ad una vicenda culturale. Tende a prevalere nel nostro contesto una sorta di “personalismo senza religione” (come retaggio dei secoli della prevalenza cristiana e della sua crisi). Si tratta di una concezione dell’uomo come persona unica e irripetibile che di fronte alla morte non ha più il rimedio del “passaggio” ad un’altra vita, perché la fede nell’aldilà è stata interessata da una crisi cominciata nel XVIII secolo e che si è andata vieppiù approfondendo fino ai giorni nostri. Di conseguenza si può parlare liberamente della morte solo con due minoranze: quella di coloro che ancora credono nella resurrezione dopo la morte, e quella di coloro che sono stati conquistati dal darwinismo e che identificano la morte col cadavere attribuendole finalità biologiche che la rendono “naturale” e non terrorizzante, purchè arrivi alla fine di una lunga vita spesa bene e senza una lunga agonia.
2 • La stragrande maggioranza pensa invece alla morte come ad un annullamento senza rimedio di una vita unica e irripetibile e per difendersi dall’angoscia accetta di buon grado l’indicazione dominante della nostra cultura di “non pensare alla morte e vivere come se non si dovesse morire mai”.
Un modo per tenere conto di questa complessa vicenda ancora in corso consiste nella possibilità aperta dalla riflessione di Emmanuel Levinas, secondo la quale si dovrebbe pensare alla reazione dell’uomo di fronte alla morte come ad “un’emozione nell’ignoto”, facendo della morte un “mistero” in grado di farci superare la dicotomia tra resurrezione e annullamento, e aprendo una “domanda all’infinito” che potrebbe mettere in grado l’uomo di opporre al morire, più che l’altra vita dell’aldilà o il silenzio del non pensarci, il desiderio di svelare un mistero che possa durare oltre la possibilità di svelarlo. Ho tentato di applicare questa prospettiva all’educazione alla morte dei bambini nel mio volume “La domanda che vola”( EDB, Bologna 2012).
3 • Ricordo molto bene l’uscita del libro Il deserto e la speranza perché ero una giovane studente all’Università di Parma, dove lei insegnava.
Il “Deserto e la speranza” è stato a lungo l’unico libro di psicologia del lutto scritto in Italia e dopo circa vent’anni ha cambiato nome (il titolo è ora “Lutto e desiderio”, Armando Roma) seguendo l’evoluzione delle teorie e della pratiche di assistenza al lutto attuate tramite il Progetto Rivivere (servizio di assistenza psicosociale gratuita alle persone e alle famiglie in lutto) che opera a Bologna e in altre città italiane.
4 • Quando fondò l’associazione internazionale IATS (International Association of Thanatology and Suicidology) conobbe anche Elisabeth Kübler Ross, uno dei più noti esponenti dei death studies…
Ho conosciuto Elisabeth Kubler Ross in Messico nel 1992 in occasione del primo congresso internazionale di Tanatologia che la IATS ha organizzato. Personalmente era la “forza della natura” necessaria ad aprire il mondo allo studio della Tanatologia in un’epoca (i primi anni sessanta) in cui parlare della morte con i morenti era semplicemente rivoluzionario.
5 • Pensa che la sua opera sia stata oggetto di adorazioni semplicistiche e fraintendimenti divulgativi?
Basti pensare al suo concetto di “accettazione” della morte che rappresenta l’ultimo stadio della famosa sequenza del lutto (negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione): se qualcuno avesse letto attentamente il suo libro più famoso (Death and Dying) saprebbe che per Kubler Ross accettazione non significa, come la vulgata dice, porsi di fronte alla morte e dirle “razionalmente” di sì, ma regredire ad uno stato di narcisismo primario nel quale il sè e il non sé si confondono e la morte può essere integrata dalla mente. Un altro aspetto controverso del pensiero di Kubler Ross è stato l’esito “spiritualistico” e talvolta quasi “parapsicologico” della sua concezione della morte come “nuova nascita”, che tende ad oscurare il meritorio modo di aiutare i morenti favorendo il loro vivere attraverso l’amore dei momenti insostituibili di vita, possibili proprio perché si sta morendo.
6 • “Rivivere” è il nome dell’ associazione culturale – senza scopo di lucro – le cui finalità coincidono con attività a carattere psicologico, clinico e sociale destinate a promuovere una cultura d’aiuto nei confronti di chi ha subito una perdita traumatica. Qual è l’obiettivo fondamentale?
Rivivere è un’associazione culturale che ha due ragioni sociali: promuovere l’aiuto a chi ha subito un qualsiasi “colpo mortale”(cioè globalmente una crisi) e deve rivivere; promuovere l’umanizzazione della Medicina senza di che ogni intervento di aiuto può risultare vano o meramente tecnico, cioè insufficiente o peggio.
7 • Per dare maggiore concretezza ai suoi numerosi progetti è stata inaugurata a Bologna, in via Giorgio Ercolani, 3 la Libreria Rivivere, il cui nucleo portante è il Centro studi “rivivere” sulla morte e sul lutto, e che si propone come un luogo di formazione, di incontro e confronto nato con l’intento di contribuire al cambiamento culturale necessario per non essere lasciati soli nei momenti difficili della vita (morte, malattia, traumi e lutti soprattutto). Quali sono progetti del 2014?
Negli anni scorsi abbiamo dedicato la gran parte degli sforzi culturali dell’Associazione gli incontri pubblici di “Educazione Sentimentale”, per due anni sull’amore e per uno sulla violenza. Dall’ anno prossimo l’intervento di educazione sentimentale proseguirà dedicandosi ai “sentimenti della vita quotidiana” con un ciclo di incontri dal titolo “Vivere e Rivivere” che si prefigurano come una proposta di vera e propria “Scuola di vita quotidiana” nella quale promuovere l’incontro tra la saggezza dei sapienti e quella che deriva dalla vita di tutti i giorni. Allo scopo di costruire un luogo di condivisione per andare “oltre le crisi” di qualunque tipo siano.
8 • C’è un libro in particolare, tra i numerosi che ha scritto, che vorrebbe consigliare a chi si avvicina ad esplorare questo aspetto imprescindibile della vita?
Ne ho già citati due prima e non voglio esagerare, ma sarei contento se si leggesse il mio libro più difficile (Perpatire, Saggi sull’altruismo, Armando Roma) perchè tenta di illustrare l’impostazione filosofica ed etica del mio lavoro.
9 • Come definirebbe il suo “rapporto con la morte”?
Il rapporto che si può avere con un enigma che si desidera svelare e che continuamente si rivela ma mai del tutto. Un rapporto che non finirà spero neanche con la morte perché altri continueranno ad interrogarsi su di essa come io ho fatto per tutta la vita, e farò fino alla fine tramite i pensieri che ogni sera ho deciso di dedicarvi da un anno a questa parte. Pensando ogni giorno alla morte si constata che si può pensare ad essa a partire dal tempo infinito che ci vorrebbe per chiarirne il mistero, e non viceversa pensarla come la fine del tempo. Vivendo in questo infinito interrogarla senza ricevere mai risposte definitive, invece di vivere in vista della morte si può vivere oltre che nel “finito” anche nell’Infinito.