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Immaginiamo una città in cui la fragilità non sia un peso da nascondere, ma un valore condiviso. Una comunità in cui il dolore, la perdita e la morte non siano tabù, ma esperienze accompagnate, riconosciute e sostenute. Non è un’utopia, ma una visione che prende forma nel modello delle Compassionate Cities, città compassionevoli che pongono la relazione umana al centro della vita collettiva.

Il movimento delle Caring Communities ha preso vita più di vent’anni fa in Kerala, India, e da allora si è diffuso in tutto il mondo. La sua essenza? Integrare il sostegno sociale con l’educazione alla morte, ridefinendo il concetto stesso di cura: non più soltanto un’azione sanitaria o assistenziale, ma un impegno diffuso che coinvolge cittadini, istituzioni, scuole e associazioni.

Uno degli esempi più significativi si trova in Spagna, nella città catalana di Vic (Vique), dove un sistema di cure palliative attivo dagli anni Ottanta ha dato vita a una comunità realmente inclusiva. Qui, il Consiglio Comunale e l’Università di Vic hanno lavorato insieme per creare una rete di supporto in grado di abbracciare chi si trova nelle fasi più delicate della vita: malati, anziani, persone sole. Il risultato è un tessuto sociale più coeso, dove nessuno è lasciato indietro.

In Italia, il progetto InVITA a Reggio Emilia segue questa stessa filosofia. Guidato da Silvia Tanzi e supportato dal Centro Servizi per il Volontariato Emilia, InVITA costruisce ponti tra generazioni, unendo pazienti, famiglie, giovani e anziani in un dialogo profondo sulla morte e sulla cura della vita.

Il cuore di questi progetti risiede in una nuova cultura della consapevolezza. La Death and Dying Education e la Grief and Death Literacy non sono concetti astratti, ma strumenti reali per affrontare la vita con maggiore lucidità. Educare alla morte significa, in fondo, educare alla relazione: sapere ascoltare chi soffre, comprendere l’importanza dei riti di passaggio, accettare la nostra finitezza come parte di un’esperienza condivisa.

Ma come possiamo rendere questa visione ancora più inclusiva? Come trasformare l’idea di Compassionate Cities in una realtà accessibile a tutti? Un possibile strumento potrebbe essere l’Open Space Technology, uno spazio pubblico in cui chiunque possa portare il proprio vissuto e le proprie idee, senza gerarchie, senza barriere. Un luogo di confronto aperto, dove cittadini, operatori sanitari, educatori e associazioni possano costruire insieme nuovi percorsi di comunità.

Forse il primo passo per rendere una città davvero compassionevole è iniziare a parlarne. Creare occasioni di dialogo, stimolare riflessioni, dare voce a chi troppo spesso viene lasciato in silenzio. Perché la cura, in fondo, non è solo un gesto: è un modo di essere nel mondo.