Sono passati diciotto anni dalla morte di Jeff Buckley e, ancora oggi, l’artista è considerato una delle voci più emozionanti nel panorama musicale contemporaneo. Il culto a lui collegato non è dissimile da quello di icone morte in circostanze altrettanto drammatiche; la storia del rock vive e si nutre di figure passate a miglior vita e Buckley ne è un’ennesima quanto preziosa testimonianza.
Nasce il 17 novembre 1966 a Orange Country, in California, da Mary Guibert, una violoncellista di origine panamense, e Tim Buckley; non esattamente uno sconosciuto. Per definirne la figura le parole potrebbero non bastare: folk singer illuminato, compositore di talento, genio (in)compreso. Tim Buckley è stato uno dei più grandi cantanti che il rock possa vantare di aver incrociato.
Viene quindi facile pensare che il figlio possa aver ereditato tali geni, anche se nel mondo della musica i figli d’arte, storicamente, non hanno vita facile; spesso vittime di preconcetti, percorrono strade apparentemente in discesa, sebbene tra quelle curve, si celino insidie alle quali spesso è difficile far fronte.
Chi era Jeff Buckley? Dopo aver partecipato al “Greetings from Tim Buckley” alla St. Ann’s Church di New York, il tempo della gavetta non era ancora terminato e l’artista cominciò ad esibirsi come solista nei locali del Lower East Side di New York. Fu quello il periodo in cui le cose mutarono in rapida sequenza; alla fine dello stesso anno, infatti, firmò un contratto discografico con la Columbia, grazie al chitarrista e produttore Steve Berkowitz. Risalgono all’agosto del 1993 i primi tentativi su disco: l’ep Live at Sin-è ne sancisce il debutto (quattro le canzoni tra cui Modjo Pin ed Ethernal Life).
Grace nel 1994 è l’album d’esordio e l’unico ufficiale. Pubblicato nella seconda metà del 1994, è soprattutto l’involontario testamento di un artista straordinario, in grado di realizzare esattamente il disco che aveva in testa: nella sua accezione ritmica, il pop caldo e fuorviante doveva confluire dentro stili musicali ben definiti: folk, hard rock, musica etnica. A fare da sfondo, la voce, capace di lambire gli sconfinati territori frequentati dai grandi del blues e del gospel. Ballate come Lover oppure Ethernal Life ne sono una decifrabile conferma.
In Dream Brother, capolavoro assoluto, traspare l’esigenza di una profonda ricerca spirituale. Si ascolti anche Allelujah di Leonaard Cohen che riveduta e corretta, evoca toni profondi e un incedere meditativo che non lascia scampo. In Corpus Christi Carol le note si fanno rarefatte e gli strumenti sono un semplice accompagnamento per la voce, ancora una volta impetuosa ed assoluta.
Ogni brano è l’imprescindibile tassello di un capolavoro incommensurabile. Più che un album, una pietra miliare della musica rock degli anni ‘90. Il successo planetario lo catapultò all’attenzione del grande pubblico. Il disco, inoltre, fu acclamato unanimemente dalla critica specializzata che vedeva in lui, per ovvi motivi, l’ideale prosecutore dell’opera incompiuta del padre.
Tra l’estate del 1996 e il febbraio del 1997 il cantante stava lavorando alle canzoni del nuovo disco. L’opera procedeva a rilento, c’erano stati problemi con il produttore dell’album Tom Verlaine (ex-Television) e questo ne aveva rallentato le registrazioni. Buckley veniva da un tour che tra il 1994 e i primi mesi del 1997 lo aveva portato in giro per il mondo. In quel periodo tenne una quantità incredibile di concerti, toccando, oltre agli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Giappone e diversi paesi europei. Arrivò anche in Italia per tre soli appuntamenti: Milano, Cesena e Correggio (Reggio Emilia).
Nel maggio del 1997 l’artista si trovava a Memphis poiché riteneva quella città il luogo ideale nel quale dare vita al suo secondo attesissimo album; avrebbe dovuto intitolarsi con ogni probabilità My Sweetheart The Drunk. Quella sera, in un lento digradare di forme e colori, il sole si richiuse in se stesso. Quel ragazzo, ebbro di vita, si tuffò allontanandosi con impeto dalla riva:
‘Jeff entra nel Wolf River (…) e comincia a nuotare. Canta insieme a Robert Plant, canta il ritornello di Whole Lotta Love, mentre l’amico a riva si sgola, pregandolo di fare attenzione. Lo invita un paio di volte ad uscire. Buckley continua a nuotare fino ai piloni del ponte autostradale che attraversa il fiume. Ormai è quasi buio. Keith gli urla di stare attento: c’è un battello che arriva dalla direzione opposta (…); Jeff si sposta, ma evidentemente troppo tardi. La corrente provocata dall’elica del motore del battello lo tira giù. Keith non si accorge di nulla; l’onda provocata dal passaggio del barcone gli finisce addosso (…). Una questione di secondi. Quando torna a guardare verso il fiume, Jeff è scomparso’ (da Aspetto nel fuoco di Chiara Papaccio).
Il corpo fu ritrovato il 5 giugno 1997, la corrente lo aveva trasportato nel tratto di fiume che scorre al centro della città. L’autopsia rivelerà che il cantante non aveva bevuto e non era drogato al momento dell’annegamento.
In memoria di Jeff Scott Buckley (Anaheim, 17 novembre 1966 – Memphis, 29 maggio 1997).