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Non ho mai conosciuto Mario. Solo attraverso una piccola immagine: ristretta, minuta, come la mia età, il mio tempo, quei miei sette anni.

Sento parlare di lui. Lo rammenta la nonna, lo racconta il papà. Ma dov’è?

Egli se ne è andato giovane. È partito per la Russia e non è mai tornato.

Quando chiudo gli occhi Mario affonda nella neve. Gli uomini con lui sono esausti.

Ogni passo è un arrivo.

Il comandante precede la colonna. Ogni tanto una raffica, poi silenzio,

poi ancora spari e ancora silenzio, come fossero tutti scomparsi.

Le bende delle ferite non fanno in tempo ad asciugarsi che induriscono per il gelo

mentre il sangue continua a scorrere.

Così, di giorno in giorno, la marcia si fa più lenta e le energie più deboli,

mentre bisognerebbe procedere con forza. Più presto. Ma dove?

Ogni albero sembra un nemico, ogni balza un agguato, ogni dirupo una tomba.

La fame s’è fatta sentire, il freddo è salito. Accanito.

La neve scende; cade per coprire i morti.

Il comandante avanza con foga, nel silenzio.

Un silenzio che d’un tratto può riempirsi di colpi.

Meglio buttarsi sulla neve, rannicchiarsi sotto gli alberi,

cedere al sonno, alla fatica, allo sfinimento,

dormire sulla neve, anche se gli altri sono alle calcagna

e la tormenta schiaffeggia ogni volto.

Nello sguardo di Mario, nella sua voce c’è qualcosa di simile al panico, o alla resa.

Esiste un luogo in cui fermarsi sicuri?

Saper trasformare la propria angoscia di morte è tra le cose più difficili.

Quando riapro gli occhi piango le mie lacrime.

Ora tutto è calmo.

Il sole splende allo zenith. Stormi d’uccelli seguono il vento

e le cime degli alberi si piegano lente.

 

 

 

In memoria di Mario Perini

In “Io mi ricordo”, a cura di Giacomo Papi, Einaudi, 2009.

L’immagine in evidenza è di Margot Pandone